La pioggia cade, sottile, penetra nei vestiti, si infila nelle ossa.
Fa freddo.
L’asfalto è lucido, tanto da sembrare quasi bello.
Tiri su il cappuccio giallo e scendi ad affrontare la pioggia.
La macchina è adagiata su un fianco, vetri e lamiere contorte, altre auto ferme in coda piene di occhi curiosi che sbirciano dal finestrino.
Il corpo è lì, appeso alla cintura, è solo un corpo senza più nessuno dentro e questo è evidente da subito.
Comunque qualcuno è arrampicato sul rottame dell’automobile e cerca di stabilizzare il collo e la testa del corpo.
Sfondate il parabrezza, ti infili carponi nel rottame, tra i frammenti di vetro che imperlano tutto e la pioggia che lucida la scena.
Arrivi a toccarlo, ma sai che quel tocco lui non può più sentirlo. Nè potrà sentire altro. Le pupille dilatate e fisse, buchi neri vuoti dove la luce non può più entrare.
Qualcuno ti porge un portafoglio. Una vecchia patente piena di bollini e con una foto che rimanda a tempi diversi, gioventù, vita, potenzialità.
Il corpo ora ha un nome. Tu resti sotto la pioggia e ti passano davanti scene di una vita che non hai mai conosciuto. Forse tornava da un lavoro in campagna, magari aveva un nipotino che giocava con il pupazzo di peluche che adesso giace sull’asfalto a prendere la pioggia, probabilmente aveva amato una donna che lo sta aspettando a casa con il piatto caldo della minestra coperto sul tavolo apparecchiato.
Stendono il lenzuolo bianco, a contrasto con il grigio lucido della strada, a coprire ciò che resta. A coprire niente.
Ti svegli, compili i tuoi moduli, ti chiedi perché ancora la mente vaghi e se mai questa sensazione greve che ti stringe il cuore svanirà, travolta dal cinismo e dall’impotenza di chi è abituato ad incrociare la Nera Signora tanto spesso.
Tiri su il bavero del giubbotto giallo, ti ci stringi dentro in cerca di un po’ di calore.
Ti volti e vai via, lasciando il lenzuolo ad inzupparsi di pioggia.
Senti freddo.
un caldo pensiero…un abbraccio…
non so, ma la prima cosa che ho pensato, e mi perdonerai, è che il giallo sia un colore troppo chiassoso, quasi indecente.
per accompagnare certi momenti.
che di gelo trovano clima dentro la testa.
Hai ragione, lo è. Come lo siamo noi, che assistiamo a momenti troppo privati e definitivi che appartengono ad altre storie. Però a noi tocca essere lì, ci tocca indossare indumenti che ci facciano riconoscere e vedere da lontano, ci tocca fare chiasso e lavorare sotto la pioggia… e, in qualche contorto modo, siamo quelli fortunati.
ci sono delle volte che essere lì è un salvavita.
e a salvarsi, sono molte più vite di quelle che si immaginano.
Si, è vero. Una di quelle è la mia.
“Senti freddo”.
E l’applauso, lo senti? 🙂
Quello mai, però a volte vengono a salutarti o si ricordano di te per Natale… e vederli vivere è meglio di un applauso!
ci vuole coraggio o incoscienza per fare quello che fai. magari tutt’e due le cose insieme. non so immaginare cosa possa significare riporre la sera quel giubbotto giallo, rivederci i riflessi della giornata. io l’ho scritto altrove, quando vedo finire una storia, mi sembra di affacciarmi su un buco nero, mi dà solo un grande senso di vuoto, di angoscia. tu lavori sull’orlo di quel buco nero, ed è lì che tutti ti vogliono, quand’è il momento. dal canto mio, io ho raccontato a me stesso che nella vita mi sarei dedicato ad impugnare una torcia, ad illuminare gli angoli bui. ma quel pozzo è troppo profondo. io comunque mi tengo stretto la mia luce, mi ci aggrappo, come se potesse salvarmi. ognuno deve raccontarsi qualcosa.
Penso anche io che ci voglia dell’incoscienza… e una notevole dose di follia. Forse questa è la mia di luce, quella a cui mi aggrappo e mi tengo stretta. Continuiamo a raccontarci qualcosa!
Accidenti, che groppo in gola.
Sei brava, sai. Trasmettere emozioni non è facile, specialmente queste. Ero lì accanto a te, con i lampeggianti dell’ambulanza che si riflettono nell’asfalto, con le macchine che ti passano accanto rallentando e il poliziotto con l’impermeabile nero che dice circolare, gli sguardi curiosi ma con un fondo di preoccupazione mentre si legge la targa. E ho visto i tuoi occhi. Persi nel vuoto.
Grazie, davvero. A volte mi chiedo se sia giusto lasciare uscire emozioni come queste, ma poi mi dico che sono parte integrante della mia vita e che se scrivo qui è proprio perché ho bisogno che vengano fuori, per alleggerire l’anima. E’ bello sapere che ci sono persone che sanno accettarle e anche che si riesca a farle arrivare… E in bocca al lupo per il tuo libro!
Non esiste un giusto e uno sbagliato. Non credo nelle certezze, credo nei dubbi. Non sono un fanatico del relativismo, intendiamoci. È giusto comportarsi secondo le regole. È sbagliato violarle. Però esistono delle zone grigie, nelle quali giusto e sbagliato diventano confusi, ed esistono delle zone dove sono addirittura poco applicabili. Giusto o sbagliato descrivere un’emozione? Giusto per chi? Per te o per chi legge? Se lo hai scritto, per te è sicuramente giusto. E questo è quel che conta. Poi conta anche il tuo lettore. E allora chiediti qual è il tipo di persona che vuoi che ti legga. Ma anche affronta la cosa con un sano richiamo al metodo SGC. Se sei di Roma saprai cosa significa sticazzi, e la G è il meraviglioso rafforzativo gran. Per cui sticazzi si trasforma in stigrancazzi, che solo pronunciarlo è liberatorio! Se non sei di Roma, sticazzi significa semplicemente chissenefrega. È un po’ più ampio di così, ma in questo contesto è sufficiente. Sulla leggerezza dell’anima magari ti risparmio il pippone… 😀 e ne parliamo un’altra volta, ché è una cosa sulla quale la mia logorrea svelle qualunque argine… 😉
Già, di zone grigie e zone in cui non tutto è delineato come potevamo credere la vita è piena. Hai ragione. La cosa più difficile è imparare a fare dei passi indietro e accettare che non tutto può procedere linearmente come nella nostra mente avevamo progettato… e sposare la filosofia del Grande Capo Esticazzi, ché ogni tanto ci vuole!
Bello come si mischino i discorsi, incrociandoli con altri spunti provenienti da altri post. Hai centrato il punto, quando dici che noi progettiamo e ci facciamo dei gran film e poi le cose vanno diversamente.
Questo è un altro argomento da pippone solenne 😀 si chiama “vivere il presente”. E’ la cosa più difficile che esista. Carpe diem. Ne scrivo periodicamente, evidenziando come non sia un invito all’incoscienza, ma al contrario sia un invito alla consapevolezza profonda. Perché il nostro passato ci ha portato a questo presente, nel quale stiamo costruendo il futuro. E allora questo presente vale la pena di contemplarlo e assaporarlo, a volte. Altrimenti si perde tanto. E’ il viaggio, non la meta. 🙂
Anche per me vivere il presente è un invito alla consapevolezza profonda di se stessi. La cosa più difficile da fare, forse. Vivere senza nascondersi, con il coraggio di guardarsi dentro in ogni istante, senza la possibilità di rifugiarsi in un futuro che non sappiamo quando arriverà o in un passato che non potrà rivivere. Anche se, a volte, nascondersi sembra la via più semplice da percorrere e scegliere di vivere è una grande responsabilità da assumersi… insomma, mica pizza e fichi!!